[Riprendiamo a partire dall'ultimo post in Dialoghi e Pensieri]
La morte tabù Le mie riflessioni sulla morte partono dal mio assistere alla lenta distruzione del me-stessa costruito per tutta una vita, fino a che non mi sono proposta di inabissarlo nel mistero di me.
Anzitutto mi pongo la domanda se sia possibile ed utile nutrirsi di strategie anti-morte, come cercano di fare quasi tutti.
Finora io sono riuscita a vivere il dramma come dato di fatto che faccia da vademecum ascetico: e ascesi significa passaggio in salita, tanto più necessario in vista del disfacimento della porzione di vita ‘deperibile’ che è in me, la quale si identifica col mio io, ma non con tutta me stessa.
Tutti si chiedono che cosa ci sia dopo la morte e temono che non ci sia niente: provano perciò un senso di scacco nel vedere svanire ciò per cui hanno faticato, lottato, sofferto, acquistato, goduto, sperato eccetera. Non manca in alcuni la rassegnazione ad un destino crudele che però non vogliono guardare vis-à-vis e preferiscono proiettarlo sempre più lontano.
Eludere l’idea della morte
La vulgata della morte-da-cacciare dal proprio vocabolario mi disgusta nei suoi sviluppi di diffusa ideologia dello star-bene a tutti i costi: basterebbe volerlo, adoperarsi, nutrirsi della certezza che, essendo il presente ‘tutto’, questo si potrebbe prolungare indefinitamente; in sintesi bisognerebbe cacciare le angosce dei poveri depressi, passivi, afflosciati su se stessi, e ritrovare il gusto di vivere una sorta di giovinezza prolungata, nella quale si includerebbe la vecchiaia da non nominare nemmeno. La malattia, poi, non esisterebbe: ormai si attende, più che il miracolo della guarigione, il miracolo a portata di mano di tutti dell’auto-guarigione. E il discorso si dirama in più direzioni: dalle diete biologiche al ricorso a terapie ‘pulite’, cioè che sarebbero più efficaci delle medicine eccetera, all’appoggio al soprannaturale ‘toccato’ da veggenti: a tutto ciò che dà l’euforia di captare lo straordinario attraverso le mediazioni, collaudate da veri e propri miracoli, dallo straordinario che si incarna nel sacro (da alcuni demonizzato e inconsciamente usato); l’importante è sopprimere l’angoscia e vivere vivere vivere.
La morte trasformata in farsa
La morte non elusa (colpa di cedimento della persona!) diventa farsa, sceneggiata, giubilazione: letteralmente c’è l’esatto contrario dell’affliggersi e mostrare afflizione da parte di chi resta tra i vivi: con l’esaltazione di pochi giorni mesi anni, si ritiene di pensionare in eterno il morto, in modo dignitoso.
A me tutto questo, con annessi e connessi, pare la sintesi ed il culmine dell’ipocrisia di cui si nutre la vita in ogni suo aspetto formalizzato e non, in modo che, al contrario degli animali, anche ciò che non è regolato da leggi sia inquadrato nel sistema-vita a tutti i costi.
Alla ricerca della verità
Mi resta la domanda: dove son finite la fede, la speranza, l’amore? Quasi nessuno è ormai avvezzo a queste parole nel loro profondo significato, lontano anche dall’anti-ideologia che propone lo svincolamento da sistemi, comprese le religioni strutturate. Ebbene, anche il porsi tra gli anti-formalisti radicali è una falsa liberazione da ciò che è strutturato, perché, volere o no, ogni ‘anti’ si dà una struttura. Anzi il mitico ritorno alla natura è ancor più terribilmente preda della necessità. Le catastrofi naturali fanno da segnaletica della necessità della necessità.
Io non voglio seguire o contrappormi a nessuna teoria. Voglio porre freno al razionalismo divoratore, quindi anche alle anti-teorie che si fanno teoria-altra. L’unico atto di libertà che mi è concesso è quello di essere me-stessa. Attenzione! il me-stessa scavato nella profondità del mistero, quindi non illusorio, non costruito, non rassicurante, ma denudato e consegnato alla scomoda verità. La verità mai esauribile in una semplice definizione, posta nel confine tra la vita e la cosiddetta morte.
Ausilia
Anzitutto mi pongo la domanda se sia possibile ed utile nutrirsi di strategie anti-morte, come cercano di fare quasi tutti.
Finora io sono riuscita a vivere il dramma come dato di fatto che faccia da vademecum ascetico: e ascesi significa passaggio in salita, tanto più necessario in vista del disfacimento della porzione di vita ‘deperibile’ che è in me, la quale si identifica col mio io, ma non con tutta me stessa.
Tutti si chiedono che cosa ci sia dopo la morte e temono che non ci sia niente: provano perciò un senso di scacco nel vedere svanire ciò per cui hanno faticato, lottato, sofferto, acquistato, goduto, sperato eccetera. Non manca in alcuni la rassegnazione ad un destino crudele che però non vogliono guardare vis-à-vis e preferiscono proiettarlo sempre più lontano.
Eludere l’idea della morte
La vulgata della morte-da-cacciare dal proprio vocabolario mi disgusta nei suoi sviluppi di diffusa ideologia dello star-bene a tutti i costi: basterebbe volerlo, adoperarsi, nutrirsi della certezza che, essendo il presente ‘tutto’, questo si potrebbe prolungare indefinitamente; in sintesi bisognerebbe cacciare le angosce dei poveri depressi, passivi, afflosciati su se stessi, e ritrovare il gusto di vivere una sorta di giovinezza prolungata, nella quale si includerebbe la vecchiaia da non nominare nemmeno. La malattia, poi, non esisterebbe: ormai si attende, più che il miracolo della guarigione, il miracolo a portata di mano di tutti dell’auto-guarigione. E il discorso si dirama in più direzioni: dalle diete biologiche al ricorso a terapie ‘pulite’, cioè che sarebbero più efficaci delle medicine eccetera, all’appoggio al soprannaturale ‘toccato’ da veggenti: a tutto ciò che dà l’euforia di captare lo straordinario attraverso le mediazioni, collaudate da veri e propri miracoli, dallo straordinario che si incarna nel sacro (da alcuni demonizzato e inconsciamente usato); l’importante è sopprimere l’angoscia e vivere vivere vivere.
La morte trasformata in farsa
La morte non elusa (colpa di cedimento della persona!) diventa farsa, sceneggiata, giubilazione: letteralmente c’è l’esatto contrario dell’affliggersi e mostrare afflizione da parte di chi resta tra i vivi: con l’esaltazione di pochi giorni mesi anni, si ritiene di pensionare in eterno il morto, in modo dignitoso.
A me tutto questo, con annessi e connessi, pare la sintesi ed il culmine dell’ipocrisia di cui si nutre la vita in ogni suo aspetto formalizzato e non, in modo che, al contrario degli animali, anche ciò che non è regolato da leggi sia inquadrato nel sistema-vita a tutti i costi.
Alla ricerca della verità
Mi resta la domanda: dove son finite la fede, la speranza, l’amore? Quasi nessuno è ormai avvezzo a queste parole nel loro profondo significato, lontano anche dall’anti-ideologia che propone lo svincolamento da sistemi, comprese le religioni strutturate. Ebbene, anche il porsi tra gli anti-formalisti radicali è una falsa liberazione da ciò che è strutturato, perché, volere o no, ogni ‘anti’ si dà una struttura. Anzi il mitico ritorno alla natura è ancor più terribilmente preda della necessità. Le catastrofi naturali fanno da segnaletica della necessità della necessità.
Io non voglio seguire o contrappormi a nessuna teoria. Voglio porre freno al razionalismo divoratore, quindi anche alle anti-teorie che si fanno teoria-altra. L’unico atto di libertà che mi è concesso è quello di essere me-stessa. Attenzione! il me-stessa scavato nella profondità del mistero, quindi non illusorio, non costruito, non rassicurante, ma denudato e consegnato alla scomoda verità. La verità mai esauribile in una semplice definizione, posta nel confine tra la vita e la cosiddetta morte.
Ausilia